giovedì 28 febbraio 2013

Argo

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Tutti noi ricordiamo le vicende che sconvolsero l'Iran dopo il golpe ordito dalla CIA per rovesciare il leader democratico Mossadeq, portando lo Scià Reza Pahlevi al potere, per poi essere rovesciato dalle forze rivoluzionarie islamiche guidate da Khomeyni. Lo Scià fugge e ottiene asilo politico negli Stati Uniti, paese che lo ha messo al trono per difendere gli interessi delle multinazionali angloamericane presenti sul territorio. 

Si arriva così al fatidico 4 novembre 1979, quando gli studenti islamici occupano la sede dell'ambasciata americana, prendendone in ostaggio tutto il personale, chiedendo in cambio del loro rilascio l'estradizione dello Scià, per essere processato. Doveva infatti rispondere di numerosi crimini, compreso quello di assassinii politici e tortura. Questa è la storia più nota al grande pubblico. Meno nota invece è la storia di come sei membri dell'ambasciata riuscirono a fuggire, rifugiandosi a casa dell'ambasciatore canadese Ken Taylor (Victor Gaber).

Tony Mendez (Ben Affleck) sarà così incaricato dalla CIA di attuare un piano per recuperarli. Del resto era un esperto in questo genere di operazioni, essendo un esfiltratore, che nel gergo dei Servizi indica colui che si occupa di far fuggire ed occultare persone da un paese ad un altro; queste “figure professionali” nacquero nel Secondo Dopoguerra, per esempio nelle Ratline dell'Operazione ODESSA, piano volto ad aiutare i criminali nazisti a fuggire in Sud America, molti scienziati nazisti invece ripararono in Unione Sovietica o negli USA. Il piano di Mendez oggi potrebbe essere considerato talmente da manuale che sicuramente non sarebbe più attuabile. Infatti si ingaggia, con l'aiuto del make-up artist John Chambers (John Goodman, che ha avuto una parte importante anche nel più meritevole Flight di Zemeckis) una troupe per girare un finto film di fantascienza, Argo. Oggi sappiamo – anche attraverso la storia italiana – che l'uso del Cinema è stato di grande importanza tattica durante la Guerra fredda, per esempio a Roma operavano esfiltratori col ruolo di copertura di produttori cinematografici, si sospetta che molti abbiano aiutato a espatriare diversi infiltrati in cellule di estrema destra coinvolte nelle stragi di stato, come il famigerato Delfo Zorzi, sospettato di aver confezionato le bombe di Piazza Fontana e della Stazione di Bologna, oggi noto imprenditore, naturalizzato giapponese. Quindi già nel periodo in cui si svolgono i fatti la tecnica era ben nota da tempo; lo stesso Chambers era un agente in incognito. Questo connubio tra mondo del Cinema e Servizi segreti nasce probabilmente nell'epoca del Maccartismo.

Come film di spionaggio – tenuto conto che ricostruisce il lavoro dei Servizi – presenta una trama abbastanza lineare, priva di importanti colpi di scena. I più preferiscono definirlo un thriller, ma anche derubricato in questo modo presenta diverse carenze. Insomma, non è che possiamo definirlo meramente “thriller” solo perché come “spy-story” ha delle falle. Sfumature su cui potevamo anche sorvolare se non fosse stato giudicato il miglior film americano dell'anno. (Sic!)

Il problema è che gli sono stati assegnati tre Oscar alquanto esagerati: come quello alla miglior sceneggiatura non originale, miglior montaggio e addirittura come miglior film. Tutto questo difronte a concorrenti come il Lincoln di Spielberg, Cloud Atlas dei Wachowski, (cfr. anche la rece di Napoleone) Flight di Zemeckis ed il Django Unchained di Tarantino (Ibidem). Con tutto il dovuto rispetto per Tony Mendez, l'agente CIA che compì l'eroica missione narrata nel film, (la sceneggiatura è un adattamento del suo libro, scritto assieme a Matt Baglio) è lapalissiano quanto la politica influenzi la premiazione degli Oscar, che perde di credibilità rispetto a grandi eventi cinematografici europei, come il Festival di Cannes e la Mostra di Venezia. Anche se, a onor del vero, Affleck si limita a mostrare i fatti, senza forzare alcuna lettura di parte; con buona pace del governo di Teheran, che ha espresso vive proteste. «Un film che manipola la storia», sostiene la stampa iraniana. Assolutamente falso. Un film onesto, per quanto esageratamente premiato.

La pellicola prodotta anche da George Clooney non sembra quindi essere stata favorita solo perché anti-iraniana, quanto per la sua compatibilità con la visione obamiana dell'America, dove persino la CIA può essere vista come una istituzione “buona” e si rivaluta l'amministrazione di Jimmy Carter. Insomma, un film adatto ad essere premiato dalla First Lady in persona.

Voto: 2,5 stelle.

Giovanni Pili
(facebook)








Tony Mendez con Carter

John Chambers durante il suo lavoro "ufficiale"


mercoledì 27 febbraio 2013

Michel Vaillant - Adrenalina blu. La leggenda di Michel Vaillant

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Michel Vaillant e' uno dei piloti piu' grandi della storia, forse il più grande in assoluto. Sfida le leggi della fisica e della logica senza paura di apparire ridicolo agli occhi dello spettatore tutto sommato facendo anche una discreta figura. Certo, la trasposizione cinematografica del fumetto nato nel 57 a opera di Jean Graton, non e' stata delle piu' semplici da realizzare e in diversi momenti il film mostra la corda restando pero', sempre piuttosto godibile e ancora aderente al fumetto da cui trae origine. Magari più per gli occhi di un appassionato in quanto, se lo spettatore non conosce un minimo le regole delle gare endurance (la 24 ore di Le Mans) rischia inevitabilmente di perdersi un attimo nei meandri della sceneggiatura di Luc Besson, in questo caso insolitamente ma necessariamente complicata nella seconda parte del film.

Una delle cose migliori del film, oltre a una Diane Kruger in splendida forma, non solo fisica (l'avremmo tutti ammirata l'anno seguente nel piu' celebre Troy di Petersen) è di certo la fotografia che pare proprio risentire di benefici influssi Bessoniani, magari fin troppo patinata per dare l'idea di esasperate auto da rally o da endurance, ma assolutamente piacevole sia all'occhio dell'appassionato che a quello del profano. A tal proposito fara' un po' girare le palle scoprire che le Vaillant da rally altro non sono che delle Peugeot 206 WRC ben mascherate sia nel frontale che in coda in modo tale da farle risultare (semi)irriconoscibili. Di certo alcune scene hanno una credibilita' prossima allo zero, tra tutte, quella in cui Michel Vaillant (Sagamore Stévenin, niente male qui ma poi ne ho perso le tracce) vuole dimostrare, forse in un impeto di vanita' fuori controllo, di conoscere la pista di Le Mans cosi' bene, da poterla percorrere a oltre 300 km/h a occhi chiusi, scena irreale si, ma assolutamente degna di nota: Lui e Julie Wood (Diane Kruger) si recano alla pista nottetempo a bordo di una bestiale Pagani Zonda blu Francia (e ti pareva), lei li per li non capisce poi, il grandissimo Vaillant le dice "Mettimi le mani sugli occhi e chiamami solo i cartelli dei 100", (nelle gare endurance dopo ogni cartello dei 100 c'e' una curva), lei lo fa e se la fa (addosso dalla strizza), assolutamente irreale e proprio per questo, eleggibile a "scena madre" dell'intero film. Anche se a dir la verita', di scene leggendarie il film e' zeppo, come quella dove i due piloti della Vaillant si trovano a correre in autostrada con le due Vaillant da corsa (provocando quasi il capottamento di una ignara 2 CV a causa dello spostamento d'aria durante il sorpasso!) o ancora, l'entrata in pista delle Vaillant stesse proprio negli ultimi secondi, attraverso la celebre sezione del circuito chiamata "Virage Porsche". Vale la pena ricordare che le scene della 24 ore di Le Mans, sono state girate durante l'edizione del 2002 iscrivendo due auto, appositamente per la produzione, che hanno regolarmente partecipato alla gara, anche se la Leader (la scuderia storicamente rivale della Vaillant) ha rotto il cambio poco prima della fine.


Guardando questo film mi sono preso una parziale rivincita nei confronti del fatto che durante l'infanzia potevo solo sognare di leggere gli albi di Michel Vaillant perché in Italia la loro diffusione e' stata piuttosto limitata e in ogni caso fuori della mia portata che ho sempre dilapidato tutti i miei averi in auto, (a quell'epoca erano BBurago e Polistil in scala 1/24 e 1/18).

Sceneggiatura: Luc Besson
Cast: Sagamore Stévenin, Peter Youngblood Hills, Diane Kruger

Trama
Michel Vaillant (Sagamore Stévenin), è un assurdo pilota in grado di vincere con ugual facilita' sia nei rally  che in pista ed insieme al suo compagno di scuderia Steve Warson (Peter Youngblood Hills) decide di  partecipare con la Vaillante alla 24 ore di Le Mans, correndo così non solo contro le automobili più forti, le  Leader, ma soprattutto conto l'avversario/a di sempre: Ruth Wong (Lisa Barbuscia) figlia del fondatore della  scuderia Leader nonche' attuale ambiziosissima proprietaria.
Già questa potrebbe essere una miscela esplosiva, ma aggiungiamo che il pilota della Leader, Bob Cramer  (Francois Lavental), ha provocato un incidente che ha causato la morte di un compagno di Michel, che la sua  vedova, Julie Wood (Diane Kruger), ora corre con la Vaillante, decisa a mantenerne vivo il ricordo, e  che la signorina Wong pur di vincere la 24 ore sarebbe disposta tutto, ed il risultato assumerà ulteriori toni tragico/grotteschi.
Max Bramante














lunedì 25 febbraio 2013

Kon-Tiki

1

Se appena pochi anni fa qualcuno avesse proposto un'ipotesi di nomination agli Oscar per Joachim Rønning ed Espen Sandberg, norvegesi entrambi, le cateratte del cielo si sarebbero aperte, anzi, fracassate, e dalle nubi incendiate per cotanta spavalderia sarebbero scaturire fiumane di mefitico zolfo subito indirizzate al proferitore di simile bestemmia. D'altronde esportare Bandidas (2006) oltre il reticolato di filo spinato che al solito delimita la riserva del trash era operazione alquanto imbarazzante persino per chi il trash lo sostiene e diffonde; e scoprire, ad appena sette anni dall'improbabile profezia, che gli impenitenti scandinavi hanno avuto modo di fare pubblica ammenda e accaparrarsi le simpatie della critica americana, si rivela ancor più disagevole per chi, al contrario, al duetto di registi ha sempre dato del filo da torcere.

Non farsi piacere Kon-Tiki è cosa assai ardua, non perché sia bello di per sé, piuttosto perché sembra un prodotto infiocchettato apposta per gli Academy Awards 2013 (una nomination nella categoria “film stranieri”), con tanto di carta spumeggiante e nastro arricciolato al seguito. Rønning e Sandberg tornano a fare i bravi ragazzi, sempre con contorno in salsa a stelle e strisce, e lo fanno levigando i ghiribizzi caciaroni di Bandidas (scordatevi la Hayek e la Cruz, semisvestite, che lesbicano duro a cavalcioni di un ammanettato Steve Zahn) fino a riportare la pellicola al formato squisitamente classico del racconto cinematografico. Niente eccessi, nessuna bruttura.

Il risultato è affidato a un cast affiatatissimo e di indiscutibile pregio, chiamato a rivestire i panni (reali) dei sei membri di una spedizione di esploratori che, a bordo di una semplice zattera di corda, legni e bambù, salparono dai litorali cileni nel 1946 per raggiungere i polinesiani circa cento giorni dopo. I coraggiosi sono presto elencati: Thor Heyerdahl (Pål Sverre Valheim Hagen), Erik Hesselberg (Odd Magnus Williamson), Beng Danielsson (Gustaf Skarskård), Knut Haugland (Tobias Santelmann), Trostein Raaby (Jakob Oftebro) ed Herman Watzinger (Anders Baasmo Christiansen). Lo scopo di tutto ciò? Dimostrare le teorie dell'anzidetto Heyerdahl (1914-2002), antropologo norvegese, secondo il quale la Polinesia francese non sarebbe stata colonizzata dall'ovest, bensì da alcune popolazioni pre-colombiane che, usando zattere al posto di più sicure imbarcazioni, avrebbero solcato il Pacifico partendo dalle coste meridionali dell'America Latina. Appunto da oriente, cioè da dove ogni mattino, da millenni a questa parte, risplende in tutta la sua primitiva gloria l'immortale dio-sole Kon-Tiki (da cui anche il nome della leggendaria zattera, attualmente conservata all'omonimo museo di Oslo).


Il film è un piccolo gioiello, che parte come un'opera tipicamente norvegese (l'infanzia tra i ghiacci di uno Heyerdahl bambino) per poi divenire una pellicola d'esplorazione ambientata lungo le burrascose correnti del sud, tra squali affamati, improvvise tempeste e un clima tropicale capace di far perdere la ragione anche al più integerrimo degli idealisti. Naturalmente i nostri eroi terranno duro e vinceranno la sfida, dimostrando al mondo intero e soprattutto a se stessi che la cultura è ancora in grado di dominare la natura, e che la caparbietà della ricerca, della fiducia e persino della fede in qualcosa possono aprire orizzonti e aspettative altrimenti ritenute precluse o perlomeno difficilmente raggiungibili. Rønning e Sandberg dirigono da maestri, con un senso della regia sobrio e pulitissimo, attori straordinari e una fotografia (ad opera di Geir Hartly Andreassen) sgargiante come i mari sulle cui acque il film è ambientato. Il momento in cui i nostri si ritrovano a squartare un pescecane ancora vivo ha del sublime, con budella e schizzi di sangue ovunque, interiora che inzaccherano volti e corpi luccicanti di sudore, pezzi di carne che affondano tra le dita e si spalmano lungo gli avambracci; l'apparizione delle balene che rischiano di collidere con la chiatta è invece d'obbligo, mentre le meduse fluorescenti che illuminano la notte con i loro spettrali bagliori, per quanto scontatissime, riescono ancora a sedurre con semplice e garbatissima sorpresa. Tralasciamo i canonici riferimenti a Herzog che sembrerebbero circostanziali (ma perché citarlo sempre quando si ammira un film sulla natura incontaminata e sulla volontà di dominarne gli aspetti più incontrollabili?), e spendiamo piuttosto due parole sulla tanto decantata zattera: la ricostruzione fornita da Karl Júlíosson e Lek Chaiyan Chunsuttiwat, scenografi, è un capolavoro progettuale che ha dell'invidiabile; un piccolo appartamento galleggiante non dissimile da una moderna imbarcazione, soltanto di poco più spartana e arredata con materiali riciclabili e presenti in natura da tempi immemori. La percezione che se ne ha è quella di una struttura accogliente e tremendamente domestica, all'apparenza addirittura fuori luogo per un viaggio così fortunoso, proprio come fuori luogo sono gli eleganti completi dei navigatori all'indomani della partenza.

Il problema principale è che questa pellicola altrimenti eccezionale, escludendo la già annunciata indiscutibilità di merito tecnico, pecca di retorica praticamente per le sue quasi due ore, cosa che forse non noteranno gli estimatori dei vari Vita di Pi e Beasts of the Southern Wild, ma che alla bocca di uno spettatore abbastanza smaliziato assume un indefinibile ma onnipresente retrogusto da saggetto scolastico; i due abili norvegesi sfornano la pietanza con notevole bravura e altrettanto compiaciuta affinità per il dettaglio e l'arzigogolo, peccato però che l'estetica di un bellissimo piatto servito su vasellame d'argento finisca in più di una occasione per annacquare il sapore di fondo, rendendo più difficile cogliere le sfumature e attenuando al contempo l'asprezza di una tonalità nascosta al palato. Insomma, Kon-Tiki è dannatamente ammaliante, con le sue luci morbidissime, i suoi spazi fantastici e fantasiosi che, pur non conservando quasi nulla di specificamente settentrionale, ereditano dal Sacro Spirito del Nord il medesimo retroterra registico, l'attenzione per l'ambiente sconfinato, la natura e i silenzi contemplativi; eppure manca di quel qualcosa che permetta di elevarlo dalla dimensione superficiale di film(etto) avventuroso alla sfera dei magnifici. Non era facile ambientare un lavoro così corposo quasi interamente su una zattera: le premesse erano audaci, certo, ma inficiate a prescindere da una visione “fanciullesca e morigerata” della storia (scritta, nel caso specifico, da Petter Skavlan). L'inizio procede a scaglioni tra loro giustapposti, il nostro Heyerdahl che girovaga per il mondo accompagnato dalla fedele consorte (Agnes Kittelsen), pure lei antropologa e accomunata dalla medesima sete di conoscenza e dallo stesso inappagabile desiderio di esplorare territori inediti e selvaggi; quindi la spedizione, organizzata tra mille difficoltà logistiche, rifiuti, accuse di impossibilità avanzate tanto da esperti marinai quanto da sedicenti accademici e universitari; infine il viaggio, infinito e pedissequo, interrotto solo da pochissimi diversivi, dialoghi insistenti e qualche scena abbastanza azzeccata ma in fin dei conti non così originale da lasciare il segno. Appena iniziato, il film suggerisce sin da subito i propri presupposti, e mentre il pubblico immagina il finale, forse perché già implicito nell'idea che la storia sottende, ecco che ogni istante comporta il successivo, e il successivo quello dopo ancora. Troppa cura per le minuzie, troppa poca attenzione per l'insieme, e alla fine un sacco di elementi si danno per scontati. Bravi entrambi, cari Rønning e Sandberg, ma si tratta di un applauso per due terzi di circostanza e soltanto per uno di meraviglia.

Marco Marchetti

domenica 24 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

27


Dispiace constatare che la regista di K-19: The Widowmaker e Point Break abbia potuto realizzare un film così brutto. Forse un po' meno sciovinismo e perbenismo americanista la prossima volta potrebbe esserle d'aiuto. La cosa più sbalorditiva è stata leggere le recensioni che i critici italiani hanno scritto tessendone le lodi. Tutti, tranne uno, solo in mezzo ad un oceano di colleghi, intimiditi probabilmente dalla prima donna ad aver vinto un Oscar per la miglior regia (The Hurt Locker):
«Crudo, interminabile dramma, tratto da un’arcinota storia vera, la cattura di Bin Laden, decorato con cinque esagerate nomination. Un film rimpinzato nella prima, di atroci torture, esibite con sadico realismo, e nella seconda incentrato su un’estenuante caccia all’uomo. In piena notte e in pienissimo buio. Così non si vede niente e si capisce ancora meno». (Massimo Bertarelli, il Giornale, 07 febbraio 2013).

Possiamo dividere la trama in tre parti. Il film comincia con un bel catalogo di torture che si conclude con una scena in cui dalla Tv si vede Obama negare che ci siano. Il messaggio di Kathryn Bigelow sembrerebbe che quando ce vo', ce vo'; da qui l'infelice idea di dare ai protagonisti il ruolo dei torturatori… Non aiuta tantissimo a renderceli simpatici, l'identificazione rischia più volte di andare alle vittime di quelle violenze. Giusto perché esistono cose tipo … i "Diritti Inalienabili”, come quello di avere una assistenza legale, di non essere costretti a lasciare dichiarazioni sotto tortura, rispettare la dignità umana, eccetera. Va benissimo rappresentare i fatti, ci mancherebbe. Il problema è quale ruolo assegni in questa realtà ai tuoi protagonisti. 

Oltre a questo i personaggi sono decisamente piatti. Tralasciando l'orribile imprinting con cui ce li propongono – che magari ad un neocons piace – comunque non si riesce proprio a dargli un minimo di spessore. Così arriviamo alla seconda parte, quella più noiosa. Tanto più che la trama è esageratamente lenta. E' la fase delle indagini, che porta a scoprire il nascondiglio di Bin Laden.

La parte finale si svolge in piena notte. Finalmente scovano lo Sceicco del terrore e lo uccidono, ed è fatta molto meglio. La ricostruzione è ottima, quasi sveglia lo spettatore dal torpore nel quale era caduto durante il resto del film. Qui il realismo contamina anche la fotografia, infatti - come fa notare il Bertarelli - non si vede una mazza ferrata.

Se lo scopo della regista era quello di fare un film in stile documentaristico ci sembra che abbia allungato il brodo un po' troppo; se invece voleva fare un film storico e di spionaggio – visto che la protagonista Maya (Jessica Chastain) lavora per la CIA – mancano diversi elementi importanti, come la suspense. Infine, se la regista ha voluto dare un messaggio femminista, con due donne come Maya e Jessica (Jennifer Ehle) con ruoli importanti di comando, c'è da rabbrividire; dal film si può evincere grosso modo il messaggio seguente: “Vedete? Le donne americane sono pienamente integrate. Infatti accettano la tortura come mezzo per proteggere il paese, al pari dei maschi … Non senza prima addolorarsi alla vista di pinze e fibbie, s'intende”.

Come film di propaganda (involontariamente) antiamericana invece, non è male.

Voto: 2 stelle.

Giovanni Pili

sabato 23 febbraio 2013

Another Earth

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Another Earth ovvero: Non siamo soli nell'universo. E i nostri vicini non sono esseri diversi da noi che viaggiano su ufo (o ovni) venendoci a spiare di tanto in tanto. No. I nostri vicini sono la copia esatta di noi stessi. O il nostro specchio se vogliamo. Non viaggiano su astronavi ma se ne stanno buoni sul loro pianeta il quale e' l'immagine speculare del nostro. Mike Cahill esordisce col botto tirando fuori un prodotto dalla potenza incredibile che ha lo stesso effetto di un pugno nello stomaco. Stara' a voi stabilire se benefico o meno.

Forse il giudizio finale dipendera' da quanto siete soddisfatti della riuscita delle vostre vite.
La fotografia cupa e introspettiva mi ha ricordato molto quella di un film al quale somiglia anche per alcuni aspetti di carattere filosofico, "Contact" del 1997, ma inutile nasconderlo: se prima di questo film, avete visto Melancholia, peraltro uscito nello stesso periodo, l'immagine dell'altra terra vi fara' sempre un po' paura poiche' vi ricordera' senza mezzi termini, quella del minaccioso pianeta di Von Trier anche se solo per un po'. I paragoni non sono del tutto fuori luogo perche' in entrambi i film i personaggi sono spinti verso domande solenni anche se in modo completamente diverso e di certo l'approccio è molto piu' ottimista nel caso di Another Earth dove si vuole dare una specie di seconda possibilita' alle persone che nel nostro mondo hanno fallito. In che modo? Semplice: Attraverso un concorso che, se sarete fortunati, vi permettera' di visitare lo strano pianeta specchio del nostro per vedere cosa sta combinando l'altro voi.

Another Earth e' un film che mescola nelle giuste dosi, scienza e filosofia, ma senza risultare mai stucchevole. Tutt'altro. Coinvolge lo spettatore sin dall' inizio creando in lui una sorta di piacevole stato d'ansia e ponendolo di fronte a domande assolute. La regia e' inappuntabile, le prove degli attori tutte strepitose. Spicca, neanche a dirlo, la protagonista, una efficacissima Brit Marling. Strepitosa anche la colonna sonora che a piu' di qualcuno metterà voglia di comprare il cd del soundtrack, qualche titolo "The first time i saw Jupiter", "The specialist/Am i alone?", "Forgive" e "The other you", tra i piu' suggestivi anche nei titoli. Se ancora non l'avete fatto quindi, fatevi un regalo e godetevi la visione di questo film.

Trama: Rhoda Williams (Britt Marling) ha perso la piu' grande occasione della sua vita, quella di diventare scienziata, provocando la morte in un incidente stradale di una donna incinta, in auto con suo marito, il quale pero' sopravvive all'incidente. Rhoda si era sporta dal finestrino, senza fermare l'auto, per osservare un fenomeno celeste senza precedenti: l'apparizione di un pianeta che, gia' ad una prima occhiata, era l'immagine speculare del nostro. Il danno pero' e' fatto e Rhoda viene incriminata per omicidio colposo e costretta a scontare una pena di 4 anni di reclusione. Al suo rilascio, spinta da fortissimi sensi di colpa, cerca il vedovo della famiglia che lei stessa ha distrutto, il compositore John Burroughs (William Mapother) col quale sviluppa un rapporto assai intimo tenendolo allo stesso tempo all'oscuro della realta' dei fatti. Nel frattempo l'altra terra, e' diventata un caso mediatico e viene indetto un concorso in cui il vincitore puo' visitare il pianeta gemello. Rhoda brama dalla voglia di andarci per scoprire che vita sta vivendo "l'altra lei" sulla Terra 2 ma John, sempre inconsapevole della vera identita di Rhoda e temendo in qualche modo di perderla come ha gia' perduto sua moglie, non vuole che lei vada.

Max Bramante









venerdì 22 febbraio 2013

The Slams - Slam! Colpo forte

2

"Jim Brown va oltre il muro a riprendersi il suo milione di $."

Frase di lancio originale del film

Glover/Ted Cassidy :- [Mentre sta giocando a dadi] "Dovresti fregartene dei neri."

"Slam! Colpo forte"(The Slams) (1973) di Jonathan "E' tempo di uccidere, Detective Truck!/Truck Turner" Kaplan, è un vero e proprio film d'azione anni '70 tipicamente Blaxploitation, duro e grintoso. Jim Brown, incarnazione e simbolo stesso del genere interpreta qui il bello e stoico protagonista, Curtis Hook. Hook è finito in carcere in base esclusivamente ad alcune accuse relativamente minori, ma tutti sanno che lui solo sa dove i proventi di un furto di droga a dei mafiosi tutti cinicamente uccisi(una valigetta piena di eroina che egli getterà subito in mare da un pontile forse perchè così colpevole della morte di tantio "fratelli", e di 1,5 milioni di $ in contanti) sono nascosti. Quindi è un uomo segnato e in "gabbia'', con tutti che vogliono almeno una parte della valigia di denaro che egli ha fuori messo "al sicuro". Ci viene come spettatori impostato di parteggiare per Hook e sperare che riesca a cavarsela con tutto il mazzo ... il che significa che dobbiamo comodamente porre da una parte il fatto che i sette trafficanti di droga e mafiosi bianchi siano stati uccisi da Hook e dai suoi due complici -anch'essi bianchi- traditori, che egli ha poi dovuto uccidere per potersene fuggire via con i soldi.

L'ambientazione e la prigione stessa sembra autentica, e probabilmente lo é/era. Ma Hook è un vero duro. Il capitano delle guardie Stambell (Roland Bob Harris) come il Direttore sono corrotti e si offrono di prendersi cura di Hook in cambio di una fetta della torta. Fino a quando egli non ha una massiccia e gravosa caduta, il capitano Stambell è in affari con il signor Capiello(Franck De Kova), un signore del crimine "vecchio stile" con tanto di tirapiedi ovviamente nero- più nella tradizione britannica - il quale ha la propria suite in prigione, indossa una giacca da smoking, beve vino e gestisce tutte le cause poco pulite . A nessuno sembra in mente che pure Capiello voglia anche lui un po 'di soldi da Hook e che sia il titolare di un contratto a nome dei mafiosi uccisi e derubati. Non c'è una sola guardia decente in tutta la prigione, ognuno di loro è apparentemente pronto a pestare i prigionieri, prendersi gioco di loro, spostare un gruppo di teppisti dopo che sono stati bloccati in modo che essi possano attaccare un altro gruppo, o si allontanino ben remunerati mentre viene praticata della violenza da detenuti su altri detenuti. Oltre a a questo c'è una "confraternita" di detenuti brutti e assolutamente poco raccomandabili, guidati dal forse pure omosessuale Glover (Ted Cassidy)- (sì proprio lui, caratterista enorme e altissimo, famoso tra i tanti ruoli al cinema e alla tv, soprattutto come Lurch de "La famiglia Addams"), che lavorano per Capiello, ma sono anche dediti "freelance" ad una rigida divisione razzista fra i detenuti. I prigionieri passano i loro giorni dal laboratorio alla bottega (la stampa, un giorno, la biancheria il prossimo), apparentemente al fine di introdurre lo spettatore a nuovi modi per mutilare gli altri - dal piombo acido e fuso un giorno, alla candeggina il prossimo. Chi mai avrebbe pensato che fosse così pericoloso dare accesso a detenuti violenti a dell'acido e a del piombo fuso, vero?


Hook visto anche com'è cazzuto e determinato ha però la fortuna di rimanere in vita, salvato solo dalla sua abilità e dalla sua bravura nel combattere, e per il fatto che egli non è bene per nessuno che rimanga ucciso. Ad un certo punto si scoprirà poi che il parco di divertimenti abbandonato dove aveva nascosto il bottino prima di essere catturato sta per essere demolito... Quindi egli dovrà fuggire come potrà e da solo in quanto non può fidarsi di nessun altro. Se la sua mostrata capacità di sfidare le operazioni dei carcerieri alla sua ricerca richiedono un pò di prontezza a sospendere la propria incredulità, la modalità della sua evasione "interna" è una delle migliori mai viste nel pur ricchissimo e alquanto variegato filone dei film "carcerari", audace ma "quasi" credibile. Buon divertimento, per questa sorta di obbligatorio passaggio fra i titoli migliori e più rappresentativi dell'importanza di Jim Brown e di Jonathan Kaplan, nella Blaxploitation degli anni '70.

"Slam! Colpo forte" non è mai uscito in digitale in italiano, ma soltanto sopravvive nella vecchia e in mio possesso vhs da nolo della MgM/Panarecord del 1987, dalla buona stabilità dei colori e lucente brillantezza, ma anche purtroppo e solitamente scannata nel formato dal suo originale panoramico cinematografico. Anche i suoi passaggi televisivi sono stati rari ed estremamente diradati nel tempo. Parimenti all'estero stranamente non era ancora stato editato in dvd, e solo da molto poco è stato reso disponibile in R1 dalla solita benemerita Warner Archive, finalmente nel suo corretto formato e con un ottimo nuovo master.

Napoleone Wilson

giovedì 21 febbraio 2013

Girlfriend in a Coma

26

Lo spirito di Dante Alighieri esce dalla sua statua per andare a consolare quello dell'Italia. Ma ecco che arriva lo spirito di Pulcinella, che comincia a riempirla di mazzate, mandandola in coma. E' così che Bill Emmott, ex direttore della rivista Economist vede la sua amata. Inizia quindi il suo viaggio; come novello Dante scende negli inferi del Bel Paese per poi uscire «a riveder le stelle».

Il film si divide in tre parti: La Mala Italia; La Buona Italia; L'Ignavia. Si parte quindi analizzando tutte le principali infamie italiane dell'ultimo ventennio, che sono maggiormente indicative del declino ancora oggi in atto. Dai crimini del G8 all'uso del corpo delle donne in Tv; dalla predominanza delle organizzazioni criminali nei gangli del potere al berlusconismo; dal vile Schettino al Ruby gate. Emmott non è certo un bolscevico – anche se somiglia tanto a Lenin – con buona pace di Berlusconi, che tale lo aveva definito, salvo poi rimangiarsi pavidamente tutto quando incontra il giornalista inglese di persona, in occasione dell'insediamento di Mario Monti al governo. Che lo spirito di chi ha realizzato questa pellicola sia neanche tanto velatamente liberale e liberista lo si capisce anche nel vedere, dalla parte della buona Italia personaggi come Marchionne e lo stesso Monti. Invitiamo caldamente a rimuovere questi particolari discutibili, che faranno storcere un po' il naso a molti di noi, perché questo documentario merita, tantissimo. Facciamo presente, inoltre, che le riprese sono state realizzate un anno fa. Del resto hanno partecipato diversi intellettuali italiani come Umberto Eco, Roberto Saviano, Nanni Moretti e Marco Travaglio. Tra i politici, Berlusconi è stato invitato a rilasciare un'intervista, ma ha rifiutato, nonostante lo avesse promesso personalmente a Emmott; in compenso c'è Beppe Grillo. La lista non finisce qui.

In ogni secondo di questo documentario traspare l'amore ed il rispetto di Emmott per l'Italia, ch'è stata molto importante per la sua formazione, fin da giovanissimo. Decadono di fatto le critiche di chi – probabilmente senza vederlo (come al solito) – lo ha bollato come una critica ipocrita degli inglesi verso gli italiani; riduzione che fa molto tifoseria da stadio. Ironia della sorte, anzi del Cinema; nel film Saviano nell'analizzare uno dei mali del berlusconismo parla proprio della tecnica di dividere per tifoserie, dove a prescindere si difende un candidato, a ragione o torto. Questi signori, insomma, si commentano da soli.

Se da un lato il liberista Emmott inserisce nella parte buona le multinazionali della Fiat e della Nutella, dall'altro vediamo anche gli studenti che occupano i teatri, i laureati che emigrano all'estero e gli impavidi che lottano ogni giorno contro la mafia. Il giornalista britannico ci invita comunque a riflettere sul fatto che l'Italia non è una anomalia europea, essa è indicativa di quanto sta cominciando a succedere anche nel resto del Continente. Così arriviamo al capitolo finale dedicato all'ignavia, una analisi molto coraggiosa che pone l'influenza della Chiesa al centro del problema; si ricorda quindi come già Garibaldi, Mazzini e Cavour lamentassero la presenza capillare e influente di questa organizzazione. Non è curioso che da un lato gli alti papaveri dello stato, a partire dall'insediamento di Monti, abbiano dato vita ad una ondata di sciovinismo risorgimentale, rimuovendo – e quindi svuotando di senso – la componente anticlericale del processo di unificazione nazionale? Gli italiani visti con gli occhi di Emmott sono un popolo assuefatto da messaggi esteticamente forti ma eticamente deboli.

A tre mesi dalla prima di Londra, alla presenza di pochi eletti e nel silenzio più totale da parte dei media italici, rischiavamo di veder slittare la prima di Roma al dopo elezioni, per via di un provvedimento di Giovanna Melandri (già ministra dei Beni Culturali durante il governo di Romano Prodi), presidente del MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) dove la proiezione era prevista per il 13 febbraio. Bisogna ringraziare la redazione di Articolo 21, che ha organizzato una raccolta firme se poi la prima visione c'è stata nella data prevista al Teatro Eliseo di Roma, con l'appoggio del gruppo editoriale l'Espresso. Il dibattito che segue la presentazione è disponibile su Youtube e nel sito del film Girlfriendinacoma.eu. Contemporaneamente il sito de l'Espresso ha messo a disposizione il download del film. Due giorni dopo è stato trasmesso a L'Aquila. La BBC ha acquistato i diritti del film e lo trasmetterà proprio durante le elezioni italiane. In Italia Sky, lo sta già trasmettendo. Eppure se ne sente parlare troppo poco, un po' come avvenne per la presentazione di Diaz – Don't clean up this blood. Del resto è emblematico che in Inghilterra il documentario verrà trasmesso dalla Tv pubblica, mentre in Italia lo sta facendo una privata. Un'altra occasione persa dalla RAI, in un paese dove il mezzo televisivo è ancora il principale veicolo di informazione; non basta dunque dire “tanto su internet si vede” … ignavia, appunto.

Voto: 5 stelle.

Giovanni Pili